Luigi è un ferroviere di 55 anni. Sposato da 30, con due figli maschi che vivono nelle rispettive città di studio. La moglie viene descritta come silenziosa, un po’ freddina ma parsimoniosa e attenta alla casa e alla famiglia.
Luigi è il primo di 4 fratelli, ha avuto un padre alcolista morto quando lui era già sposato e una madre ancora vivente.
Mentre scrivo lui è ancora in terapia a sedute bisettimanali e viene da 18 mesi.
Mi è stato inviato da un collega psichiatra con diagnosi di grave stato depressivo.
Quando si presenta in studio, a me fa venire in mente un viandante spossato dai troppi chilometri percorsi, trascurato nell’abbigliamento e ahimè con un odore poco gradevole.
Allungo la mano per salutarlo ma lui sembra non trovare la forza neppure per stringerla, mi lascia un senso di freddo e mentre si siede dice: "Lo so che puzzo, non riesco neppure a farmi una doccia e questi abiti li uso da 15 giorni ma che serve cambiarsi?
Riesco faticosamente a sapere che sta male da circa 8 mesi, che non va più al lavoro, non frequenta amici... "Non ce la faccio, sono vuoto, arido come un deserto". Alle mie domande risponde a monosillabi e ripete spessissimo: "Non so
cosa dire, non so cosa dire".
In realtà ciò che mi colpisce non è tanto il suo non saper cosa dire quanto il suo NON sentire: in lui avverto un’assenza di pensiero, di emozioni, come se vivesse in uno “scenario mortifero di cui non riesce a darne rappresentazione”. ( S. Bolognini)
I primi mesi di terapia si susseguono in questa atmosfera surreale, arida, dove manca lo stato emozionale. Ogni volta penso che mi dirà di sospendere le sedute ma non è mai così, lui continua ad essere puntuale e purtroppo sempre poco profumato.
Di fronte a tale aridità che invade anche me, riesco ad offrirgli la mia presenza ma ogni volta mi sento sempre più svuotata e per usare una sua espressione, sempre più desertificata, senza idee e anch’io come lui senza desiderio. Pure io sto diventando vuota e arida, senza speranza: un viandante stanco e smarrito.
Penso a come trovare il modo per inviarlo ad un collega più esperto ma ad ogni seduta rimando la proposta e mentre rifletto sulla mia fatica ad affidarlo a qualcun altro mi accorgo di provare, ogni volta che esce dalla mia stanza, un forte bruciore allo stomaco.
Mi soffermo a lungo cercando di dare un significato a quel bruciore e mi dico che forse anch’io sto bruciando e Luigi mi fa sentire come si sta ad essere desertificati.
La seduta successiva, decisa ad affrontare con lui la mia impotenza nel continuare la terapia, quando entra e mi stringe la mano mi sovviene che quella mano fredda e morta che mi aveva porto nel nostro primo incontro, ora è leggermente più calda.
Un pensiero veloce mi attraversa la mente: “allora qualcosa brucia anche dentro di lui, allora forse qualche forma di vita c’è ancora...”
Inizio a sentire che sotto quella desolazione, quel silenzio pieno di cenere, ci potrebbe essere qualche carboncino ancora acceso, vivo, bisognoso di essere alimentato.
Il fuoco se lasciato a se stesso, spegne o distrugge ma, se viene curato e alimentato, permette di cuocere cibi ancora troppo crudi e difficili da digerire.
Cosa aveva Luigi di così indigesto che non riusciva a cucinare a fuoco lento, con cura e con amore, per poterlo gustare al momento giusto, con la persona giusta?
Pensai in quel momento al film The road
tratto dall’omonimo romanzo di Mc Carthy dove un padre e un figlio (la madre rinuncia a seguirli) percorrono chilometri infiniti in uno scenario apocalittico, alla ricerca di cibo per sopravvivere, con la paura di incontrare i “cattivi” rimasti vivi dopo l’apocalisse.
Decido allora che non voglio fare come la madre che rinuncia a seguirlo e sento il desiderio di mettermi in cammino con lui per uscire insieme da quel deserto e cercare di trovare un po’ di cibo e di calore.
Dico dunque a Luigi, forse con un tono che un po’ lo riscalda: “Luigi, ora siamo nel deserto ma pensa che da qualche parte possa esserci un’oasi per riposare un po’ ? E poi magari, finito il deserto ci sarà anche il mare..... che MI dice?”.
Resto in attesa, con lo stomaco che brucia e lui fa il discorso più lungo che abbia mai fatto in tutti questi mesi di percorso desolato e desolante: “Vabbè signora mia, proviamo a partire da qui, ho bisogno di un bel bagno, di acqua fresca per far crescere qualche filo d’erba però... dottoressa, deve sapere che se vuole accompagnarmi, dentro di me non c’è solo il deserto ma c’è anche un vulcano ATTIVO (e sottolinea la parola) e se esce tutto quello che c’è dentro ci potrebbe essere un’eruzione violenta... io però non voglio più farmi del male e non voglio farne neppure a lei. Quando partiamo? “
Sento allora che sono pronta a partire, come il padre del film, The Road, ora ho la forza di mettermi davvero in cammino con Luigi, per uscire insieme da quel deserto e cercare un po’ di cibo e di calore altrove.
Sorrido anch’io e penso a quella bellissima frase di Eugenio Borgna che parlando di una delle sue pazienti dell’ospedale di Novara dice: “INSIEME SIAMO ANDATI VERSO LA RINASCITA DI UNA SPERANZA CONTRO OGNI ASPETTATIVA DI SPERANZA“.