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Lo Studio di Psicologia Dott. Bianucci Dott.ssa Picciolli di Montecarlo in questo spazio dedicato agli approfondimenti e alle notizie, offre importanti spunti di riflessione su diverse tematiche di interesse comune.

EMOZIONARSI: parole nuove per antiche storie



La depressione e il male di vivere: dare parole al proprio dolore significa evitare che il cuore si spezzi

La depressione è un disturbo del tono dell’umore che tende sempre al basso anche in concomitanza con eventi non necessariamente spiacevoli.
Vi sono vari tipi di depressione e nessuna va presa con leggerezza ma io, in questo scritto, mi soffermerò sulle due manifestazioni depressive più frequenti e dolorose per chi ne è colpito.
LA DEPRESSIONE MAGGIORE, una patologia psichiatrica molto invalidante, con ricadute negative anche sui familiari del paziente.
Di solito inizia con un disturbo del sonno, nervosismo, stanchezza, fino ad arrivare ad un disinteresse totale verso ogni persona e attività . Alcuni pazienti dichiarano anche di non riuscire neppure a farsi una doccia e si trascinano dal letto al divano senza vedere un
futuro possibile .
Una situazione così dolorosa può durare da alcune settimane a svariati mesi e necessita di un intervento multidisciplinare: farmacologico e psicoterapeutico .
LA DEPRESSIONE BIPOLARE, caratterizzata da periodi cupi e apatici ma intervallati da rapidi cambiamenti del tono dell’umore, agitazione, iperattività, irritabilità. In genere la fase depressiva è più lunga di quella maniacale che può insorgere all’improvviso oppure essere più subdola. In questo quadro critico, il sonno e l’appetito possono essere alterati così come la capacità di attenzione e di concentrazione. Nella fase maniacale esiste il
rischio di non saper controllare gli impulsi perché manca una corretta valutazione delle conseguenze dei propri comportamenti .
Qualunque sia il modo di manifestarsi di questo disturbo, va tenuto presente che dalla depressione si può guarire se non è trascurata o sottovalutata.
Per trattarla in maniera corretta, quando ha caratteristiche severe e invalidanti, si rende necessario unire un intervento farmacologico con uno psicoterapeutico.
I fattori psichici, spesso profondi e dimenticati, giocano un ruolo importante nell’evolversi e nel risolversi della malattia .
Il percorso psicoterapeutico inizia con l’ascolto dei sintomi presentati dal paziente: sconforto, apatia, scarsa autostima, senso di colpa, perdita della speranza, per inoltrarsi poi nella comprensione del vissuto personale presente e passato del paziente, senza dimenticare che esiste anche un futuro, seppur al momento poco pensabile per lui.
Nella mia esperienza, in qualità di psicoterapeuta, ho notato come spesso siano le persone più sensibili, con un sé maggiormente vulnerabile a restare ferite da frustrazioni ed esperienze lesive che, rimanendo nascoste per paura di non essere capiti, portano poi
a dolorose cadute prima nel silenzio, nell’isolamento, e poi nella depressione vera e propria.
Chi cade in depressione, infatti, tende a isolarsi dal mondo circostante, evita il confronto, perde il senso del tempo. Nel depresso c’è solo un passato doloroso e un presente
desertificato senza sogni, senza speranze . È il senso di vuoto a fare da padrone, è il  disinteresse verso cose e persone prima importanti per noi, è il senso di colpa per non riuscire più ad esserci e tutto ciò aumenta la depressione in un circolo vizioso senza fine.
Lavorare con un paziente malato del mal di vivere ( o meglio del vivere male), è per me, ogni volta una sfida che affronto con il paziente stesso in un reciproco ascolto gentile.
Sempre mi scopro ad avere un’attenzione che non mi annoia mai perché ogni volta, in ogni nuovo caso, scopro il valore delle esperienze vissute; cerco di comprendere il dolore e l’angoscia di chi si affida a me con il suo bagaglio, pesante da portare sulle spalle ma ricco e inesplorato perché troppo spesso sottovalutato.
In ogni seduta con un paziente colpito dalla depressione porto con me le parole del pediatra e psicoanalista Donald Winnicot: "Una persona può uscire da una depressione, più forte, più saggia e più stabile di prima che la depressione entrasse in scena” e anch’io, come il mio paziente, mi sento più forte, forse più “saggia” grazie al percorso condiviso con lui.
Al termine di questo umile scritto, riporto un caso tratto dalla mia casistica di pazienti con diagnosi di depressione.
Anche in questo caso, dopo accordi con il paziente, ho cambiato alcuni dati e riferimenti per rendere irriconoscibile il soggetto.
Tengo a dire che il paziente, ancora in cura , ha espresso tutta la sua emozione quando gli ho proposto di scrivere su di lui dicendo di riprovare, dopo molto tempo, la piacevole sensazione di essere utile a qualcuno. 

Il deserto, il fuoco e poi... l'acqua.

Luigi è un ferroviere di 55 anni. Sposato da 30, con due figli maschi che vivono nelle rispettive città di studio. La moglie viene descritta come silenziosa, un po’ freddina ma parsimoniosa e attenta alla casa e alla famiglia.
Luigi è il primo di 4 fratelli, ha avuto un padre alcolista morto quando lui era già sposato e una madre ancora vivente.
Mentre scrivo lui è ancora in terapia a sedute bisettimanali e viene da 18 mesi.
Mi è stato inviato da un collega psichiatra con diagnosi di grave stato depressivo.
Quando si presenta in studio, a me fa venire in mente un viandante spossato dai troppi chilometri percorsi, trascurato nell’abbigliamento e ahimè con un odore poco gradevole.
Allungo la mano per salutarlo ma lui sembra non trovare la forza neppure per stringerla, mi lascia un senso di freddo e mentre si siede dice: "Lo so che puzzo, non riesco neppure a farmi una doccia e questi abiti li uso da 15 giorni ma che serve cambiarsi?
Riesco faticosamente a sapere che sta male da circa 8 mesi, che non va più al lavoro, non frequenta amici... "Non ce la faccio, sono vuoto, arido come un deserto". Alle mie domande risponde a monosillabi e ripete spessissimo: "Non so
cosa dire, non so cosa dire".
In realtà ciò che mi colpisce non è tanto il suo non saper cosa dire quanto il suo NON sentire: in lui avverto un’assenza di pensiero, di emozioni, come se vivesse in uno “scenario mortifero di cui non riesce a darne rappresentazione”. ( S. Bolognini)
I primi mesi di terapia si susseguono in questa atmosfera surreale, arida, dove manca lo stato emozionale. Ogni volta penso che mi dirà di sospendere le sedute ma non è mai così, lui continua ad essere puntuale e purtroppo sempre poco profumato.
Di fronte a tale aridità che invade anche me, riesco ad offrirgli la mia presenza ma ogni volta mi sento sempre più svuotata e per usare una sua espressione, sempre più desertificata, senza idee e anch’io come lui senza desiderio. Pure io sto diventando vuota e arida, senza speranza: un viandante stanco e smarrito.
Penso a come trovare il modo per inviarlo ad un collega più esperto ma ad ogni seduta rimando la proposta e mentre rifletto sulla mia fatica ad affidarlo a qualcun altro mi accorgo di provare, ogni volta che esce dalla mia stanza, un forte bruciore allo stomaco.
Mi soffermo a lungo cercando di dare un significato a quel bruciore e mi dico che forse anch’io sto bruciando e Luigi mi fa sentire come si sta ad essere desertificati.
La seduta successiva, decisa ad affrontare con lui la mia impotenza nel continuare la terapia, quando entra e mi stringe la mano mi sovviene che quella mano fredda e morta che mi aveva porto nel nostro primo incontro, ora è leggermente più calda. 
Un pensiero veloce mi attraversa la mente: “allora qualcosa brucia anche dentro di lui, allora forse qualche forma di vita c’è ancora...”
Inizio a sentire che sotto quella desolazione, quel silenzio pieno di cenere, ci potrebbe essere qualche carboncino ancora acceso, vivo, bisognoso di essere alimentato.
Il fuoco se lasciato a se stesso, spegne o distrugge ma, se viene curato e alimentato, permette di cuocere cibi ancora troppo crudi e difficili da digerire.
Cosa aveva Luigi di così indigesto che non riusciva a cucinare a fuoco lento, con cura e con amore, per poterlo gustare al momento giusto, con la persona giusta?
Pensai in quel momento al film The road tratto dall’omonimo romanzo di Mc Carthy dove un padre e un figlio (la madre rinuncia a seguirli) percorrono chilometri infiniti in uno scenario apocalittico, alla ricerca di cibo per sopravvivere, con la paura di incontrare i “cattivi” rimasti vivi dopo l’apocalisse.
Decido allora che non voglio fare come la madre che rinuncia a seguirlo e sento il desiderio di mettermi in cammino con lui per uscire insieme da quel deserto e cercare di trovare un po’ di cibo e di calore.
Dico dunque a Luigi, forse con un tono che un po’ lo riscalda: “Luigi, ora siamo nel deserto ma pensa che da qualche parte possa esserci un’oasi per riposare un po’ ? E poi magari, finito il deserto ci sarà anche il mare..... che MI dice?”.
Resto in attesa, con lo stomaco che brucia e lui fa il discorso più lungo che abbia mai fatto in tutti questi mesi di percorso desolato e desolante: “Vabbè signora mia, proviamo a partire da qui, ho bisogno di un bel bagno, di acqua fresca per far crescere qualche filo d’erba però... dottoressa, deve sapere che se vuole accompagnarmi, dentro di me non c’è solo il deserto ma c’è anche un vulcano ATTIVO (e sottolinea la parola) e se esce tutto quello che c’è dentro ci potrebbe essere un’eruzione violenta... io però non voglio più farmi del male e non voglio farne neppure a lei. Quando partiamo? “
Sento allora che sono pronta a partire, come il padre del film, The Road, ora ho la forza di mettermi davvero in cammino con Luigi, per uscire insieme da quel deserto e cercare un po’ di cibo e di calore altrove.
Sorrido anch’io e penso a quella bellissima frase di Eugenio Borgna che parlando di una delle sue pazienti dell’ospedale di Novara dice: “INSIEME SIAMO ANDATI VERSO LA RINASCITA DI UNA SPERANZA CONTRO OGNI ASPETTATIVA DI SPERANZA“. 

Che cos'è l'attacco di panico: come riconoscerlo e curarlo

Che bello sarebbe fare un viaggio alle Maldive! ( Mmmm... ma come faccio a prendere l'aereo?). 

Andiamo a cena fuori sabato sera! ( ...e se poi mi sento male? 

Se mi prende la tachicardia? Se voglio alzarmi dal tavolo e non posso? Se per andare al ristorante dobbiamo prendere l'autostrada?....) 

Quanti di voi potrebbero rispondere così ad un normale invito, ad una piacevole giornata di svago ,ad un impegno seppur importante ?

Chi ha provato l'attacco di panico , pur di non correre il rischio di riprovare tutte quelle brutte sensazioni fisiche e mentali già sperimentate, non può far altro, con rammarico, dispiacere e velata vergogna di rispondere: " No, grazie ma non posso... 

VORREI MA NON POSSO. 

 È proprio questa la frase che accompagna troppo spesso chi ha conosciuto un'ansia così debordante da trasformarsi in uno o più attacchi di panico e da quel momento si è visto costretto a limitare fortemente la propria vita. 



Si può parlare di attacco di panico quando nel giro di pochi minuti e senza uno stimolo scatenante concreto si evidenziano almeno 4 di questi stimoli specifici: 

1) palpitazioni, tachicardia - 2) sudorazione - 3) tremori - 4) dispnea o sensazione di soffocamento - 5) sensazione di asfissia - 6) dolori o fastidio al petto - 7) nausea o disturbi addominali - 8) sensazione di sbandamento, instabilità, paura di svenire - 9) paura di perdere il controllo o impazzire - 10) parestesie quali torpore o formicolio agli arti - 11) brividi o vampate di calore - 12) paura di morire.

Sono tutte sensazioni da fastidiose a spaventose che rimangono nella mente di chi le ha sperimentate con un unico desiderio:

NON PROVARLE PIÙ. 



INTERVENIRE si può e si deve per poter ritrovare il piacere e la libertà di dire: SE VOGLIO POSSO.  

Dagli attacchi di panico si guarisce, anche se il ricordo e il timore di riviverli tendono a durare nel tempo.

È LA PAURA DI AVERE PAURA CHE DEVE ESSERE SUPERATA. 



Un serio percorso di psicoterapia , talvolta associato a farmaci ( ma non necessariamente) porta alla presa di coscienza dei meccanismi che hanno portato all'attacco di panico e quindi al loro sblocco. Terapeuta e paziente analizzano insieme le modalità con cui si scatena, quale è il vissuto prima, durante e dopo la crisi, quali pensieri disfunzionali contribuiscono a tenere in vita il problema , quali strategie usare per far fronte all' insorgere del problema e i comportamenti più adatti a gestire la crisi, quali conflitti interni ed esterni rimasti irrisolti si esprimono con il sintomo ansioso .



Il percorso psicoterapeutico ha lo scopo di riportare il soggetto a poter godere delle piccole e grandi cose quotidiane che la "malattia" ha reso difficili. 

Quello della psicoterapia è un viaggio stimolante che porta all'autoconsapevolezza del nostro funzionamento mentale ed emotivo, alla conoscenza delle nostre potenzialità, a rispondere adeguatamente alle angosce e alle domande che non hanno trovato risposta nel passato. Ci aiuta a riconoscere e a chiamare col loro nome sentimenti, emozioni e sensazioni che, se non comprese e inespresse , si accumulano dentro di noi come tossine pronte a deflagrare in un terrore senza nome: l'ATTACCO DI PANICO.

I viaggi di Maddalena

Maddalena è una signora di 52 anni , dimessa nel vestire con uno sguardo triste . Sposata da 30 anni, un figlio di 28. Abita in un paesino di campagna dove fa la casalinga da quando si è trasferita dopo il matrimonio . Soffre di attacchi di panico che non le permettono di uscire dal paese se non accompagnata . Non va al supermercato , non guida l’auto e non prende mezzi per raggiungere i paesi vicini . La madre e la sorella abitano a 10 Km da lei , ma le vede solo una volta al mese, la domenica pomeriggio quando il marito non va a caccia e la può accompagnare . Lui la aspetta in auto e dopo un’ora la chiama al cellulare per farla scendere e riportarla a casa . Lei non si lamenta di questa vita anzi dice : “ meno male che c’è mio marito che mi porta dove devo andare, sento di essere un peso per lui...”. Si descrive come una bambina ubbidiente , allevata dalla zia e da una nonna, insieme alla sorella minore più simpatica e giocosa di lei . “Io non ero brava a scuola , mi piaceva solo la geografia , però aiutavo sempre la nonna in casa “. A nulla valgono i miei tentativi di passarle un messaggio di fiducia e di stimolo per le sue potenzialità inespresse . Racconta tutto con tono monocorde, senza emozioni e senza speranza . Sembra un guscio vuoto ma io resto colpita dal suo sguardo che si accende, anche se per poco, quando mi dice che era brava in geografia . Le chiedo se ha viaggiato molto e lei con un sorriso mesto risponde “ si sì molto, col pensiero . Mi faccio portare dalla mia vicina i dépliant di viaggi della sua agenzia e immagino di essere al mare , in montagna ...ovunque e sto bene , però divento un po’ triste quando “mi risveglio” e mi accorgo che sono al tavolo della mia cucina” . 
 Penso con sgomento alla vita di Maddalena, mi sembra di non poterla raggiungere nella sua rassegnazione poi....decido di viaggiare con lei e con le sue paure. La paura di disturbare, di essere un peso per la zia e per la nonna in passato e ora per il marito. “Vorrei andare ma non posso, mi sentirò male, avrò la tachicardia, da sola non riesco a far nulla”. Anch’io mi sento inutile con lei e per lei, ma la luce che passa nei suoi occhi quando parla dei “ viaggi sognati” risvegliano anche me .  
Da allora, seduta dopo seduta sogniamo insieme e viaggiamo nella sua infanzia: il mare delle Maldive dove nuota con la sua mamma ( che le ha abbandonate quando avevano 4 e 8 anni). La mamma è una sirena che nuota nel mare e “ di notte veniva a cantare per farmi dormire “. Viaggiamo nella sua adolescenza : Il Danubio, il walzer di Capodanno ma non col fidanzato bensì col papà che, dopo la partenza della madre, si era chiuso in se stesso fino a non potersi più occupare delle bambine. Sogniamo Maddalena adulta: una chef stellata nelle Dolomiti, una grande cucina con tanto calore . Al momento di scegliere la meta per il suo prossimo futuro Maddalena dice: “ vorrei prendere l’autobus che passa sotto casa mia alle 9.30 e va ad XXXX (un paese a 7 chilometri dal suo) per andare al supermercato da sola e poi tornare e preparare una torta per il mio compleanno”. Piange di un pianto che sembra inconsolabile : quello di una bambina che non vuole più essere buona per paura di disturbare, che non chiede agli altri una carezza che non arriverà mai perché ognuno è preso dai propri dolori. 
“ Voglio poter dire che esisto, voglio soffiare sulle mie 53 candeline. IO POSSO andare al supermercato da sola, POSSO battermi le mani e cantare tanti auguri: io non sono scappata come la mia mamma, non ho lasciato il mio bambino da solo, merito che qualcuno mi applauda e se non lo fa nessuno posso farlo da sola “. 
Maddalena esce con gli occhi gonfi di pianto ma con un incedere sicuro . Mi saluta e dice “ dottoressa la settima prossima è il 23 aprile , posso venire alle 16.00 anziché al mattino ( come di solito facevamo ). Accetto e non chiedo spiegazioni, vedo una donna che cammina da sola. 
Il mercoledì seguente alle 16.00, quando mi affaccio in sala d’aspetto, Maddalena indossa un bel vestito colorato, ha in mano un contenitore rosa, entra nella stanza e apre la scatola : una torta al cioccolato con tante candeline : “ 53 non ci stavano ma la torta l’ho fatta io e gli ingredienti li ho comprati al supermercato di XXXX. L’autobus che ho preso è comodo, pulito e pure divertente e poi... è una sicurezza, passa sempre ogni mattina alle 9.30. 
Di torte al cioccolato e viaggi in bus ne seguiti altri, ogni volta che Maddalena vidimava un biglietto sorrideva e si dava il permesso di occupare il posto che le spettava. 

Quando ho letto con la paziente questo scritto chiedendole il permesso di inserirlo nei miei lavori, Maddalena si è commossa : “ nel corso della mia vita , la paura dell’attacco di panico mi ha “ aiutata” a tollerare le mie frustrazioni “ VORREI, FAREI, MA NON POSSO....”, a sopportare la mia vita povera, Poi ho sentito che la rinuncia non era più un aiuto ma un impedimento, una prigione che faceva comodo a molti ma non a me.” 
Nella vita non esiste un momento in cui non si possa fare qualcosa: non c’è mai un momento in cui dire: non c’è più speranza . [ La scala che scende nell’acqua. A. Carotenuto]

Questo caso è stato redatto con il permesso della paziente e scritto in modo tale da rendere impossibile l’identificazione della stessa .   

Due sono i doni che possiamo fare ai nostri figli: il primo sono le radici per crescere, il secondo sono le ali per volare

Costruire un buon rapporto genitori/figli non è sempre semplice e lineare. 
I nostri figli crescono in fretta: quando sono piccoli ci pongono domande che talvolta possono metterci in difficoltà ma che hanno tutto il diritto di trovare risposte semplici ma esaurienti per il piccolo che ce le ha poste.
Appena crescono sviluppano competenze (computer, cellulari, giochi interattivi) che spesso superano di gran lunga le nostre. 
Quando diventano adolescenti ci sembra di non riconoscerli proprio più. Eppure sono la nostra gioia, il nostro, orgoglio; saremmo disposti a tutto pur di vederli sorridere. Non li vorremmo mai tristi e scontenti e spesso ripetiamo: "voglio per lui, per lei, tutto quello che non ho avuto per me. Forse, a monte di alcune difficoltà che si incontrano nel crescere i nostri figli, c'è questo errore di fondo, seppur fatto con le migliori intenzioni. 
I nostri figli non vogliono quello che vogliamo noi, non sono NOI e spesso hanno bisogni più semplici di quanto noi pensiamo. 
Molti genitori sono "troppo" attenti e preoccupati di non essere considerati buoni genitori. Quest'ansia li conduce ad anticipare bisogni e desideri dei ragazzi e, spesso senza volerlo, inducono in loro esigenze a cui non avrebbero neppure pensato. Negli incontri con i genitori che teniamo nelle scuole e nel nostro studio di Psicoterapia Montecarlo, amiamo sottolineare come per il 90 per cento dei ragazzi, la famiglia resta ancora la base più solida e necessaria come valore e sicurezza. Alla famiglia seguono poi gli amici, la salute, il loro futuro, gli esempi degli adulti che loro incontrano. 
I nostri ragazzi hanno bisogni di adulti autorevoli e non autoritari, di papà che li ascoltano con attenzione e li guardano negli occhi senza interromperli. Quando non sono d'accordo con le idee dei loro figli o con le loro richieste, devono sentirsi sereni nel comunicare il loro punto di vista, ma sempre con rispetto e non con rabbia (spesso dettata dalla frustrazione). 
Un figlio che cresce è alla ricerca di se stesso e può trovarsi, solo se davanti a lui c'è qualcuno che gli risponde e, quando è necessario, che gli sappia resistere.  
Gli adolescenti, in particolare, sono sempre più in attesa di trovare figure di adulti che siano fiduciosi in se stessi e nelle proprie capacità educative, perché solo così avranno davanti un esempio concreto di cosa significa essere o diventare adulti sicuri e fiduciosi. 
I nostri figli hanno bisogno di risposte, talvolta anche di sentirsi dire NO, di vedere stabilite regole che possono essere discusse con loro affinché vengano comprese e poi rispettate. 
Un altro punto importante nella relazione con loro è fare attenzione al modo in cui ci esprimiamo: se non siamo d'accordo con le loro azioni, un conto è dire: "quello che hai fatto non va bene, non è corretto" tutt'altra cosa è dire: "tanto lo sapevo, sei sempre il solito. 
Ancora: siate GENITORI  dei vostri figli e NON AMICI dei vostri figli. Gli amici sono quelli di scuola, di calcio, della piazzetta. 
I nostri figli sono rassicurati se in casa trovano una mamma competente, pronta alla confidenza ma non "complice" per compiacerli o per sentirsi dire: "mamma sei come la mia miglior amica". 
Ricordiamoci che la nostra missione è quella di aiutare i nostri figli a diventare quello che desiderano essere e non quelli che noi abbiamo sognato fossero. 
Se riusciamo a tener fede a questo progetto, tanto difficile da apprendere quanto da insegnare, avremmo buone possibilità di essere  genitori sufficientemente buoni e orgogliosi, di essere genitori di figli che diventeranno migliori di noi.

MANGIARE TROPPO? MANGIARE POCO? MANGIARE MALE.
I disturbi del comportamento alimentare

I disturbi del comportamento alimentare sono sempre più frequenti e causano disagi non solo a chi ne è affetto ma anche ai familiari che non riescono a concepire il cambiamento del proprio figlio, figlia, fratello, amico. È difficile per loro comprendere come il cibo possa, all’improvviso e apparentemente senza motivo, diventare un nemico, una cosa sporca, un pensiero costante e angosciante intorno al quale ruota tutta l’organizzazione della giornata.

 

I disturbi del comportamento alimentare più frequenti sono ANORESSIA NERVOSA, BULIMIA NERVOSA E BINGE EATING DISORDER. Quest’ultimo presenta caratteristiche comuni agli altri due disturbi alimentari più noti ma porta maggiormente tutti i rischi e problemi fisiologici legati a sovrappeso e obesità ( diabete, ipertensione, disturbi vascolari e articolari). L’ANORESSIA NERVOSA colpisce con frequenza ragazze tra i 14 e i 20 anni ( spesso anche prima) e sono in aumento casi di anoressia anche tra i maschi. Il problema si manifesta con un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee, con una dieta ferrea ed evitamento di molti cibi. Le ragazze si vedono sempre troppo grasse anche quando il loro peso è oggettivamente sotto la norma. I rischi fisici e psicologici sono severi fino a diventare devastanti: la fame alla fine colpisce anche il cervello. Prima si mangia tutta la massa grassa , poi colpisce i muscoli e gli organi interni . Se all’inizio dei digiuni forzati ci si sente potenti e lucidi, ad un certo punto tutto crolla, i pensieri non sono più lucidi, inizia il freddo, la mancanza di mestruazioni, l’isolamento sociale...ma ancora ci si vede grassi, ci si sente puri solo col digiuno o peggio ancora si iniziano ad usare mezzi di compenso: lassativi, diuretici, vomito indotto . Da qui alla    

 BULIMIA NERVOSA il passo è breve e spesso fuori dal controllo. La bulimia nervosa è caratterizzata da lunghi periodi di digiuno seguiti da abbuffate , spesso notturne, durante le quali viene ingurgitata una grande quantità di cibo in un periodo di tempo estremamente breve. L’abbuffata finisce sempre con forti sensi di colpa a cui spessissimo seguono uso di lassativi e/o un vomito incontrollato . Il discorso su questi tipi di disturbi sarebbe veramente ampio e affascinante proprio per la severità con cui tali disagi si manifestano ed hanno forte risonanza sul personale e sul sociale . 

Dopo anni di lavoro con ragazze che sono passate nel tunnel dei disturbi alimentari e con cui ho condiviso forti emozioni , vorrei riportare un pensiero tratto dal libro di Michela Marzano “Volevo essere una farfalla” che, in poche righe esprime tutto ciò che, ne sono certa, arriverà al cuore delle mie pazienti, ex-pazienti e tutti coloro che si trovano ad attraversare questo guado: 



"l’anoressia non passa così, da sola . Ma non è nemmeno una battaglia che si vince. L’Anoressia è un sintomo che porta allo scoperto ciò che fa male dentro . La paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se, a forza di proteggersi si rischia di morire"



Michela Marzano, Volevo essere una farfalla Edizione Feltrinelli 
A corredo dell’articolo sui disturbi del comportamento alimentare , e con il consenso della paziente stessa, riporto un sunto del lavoro con Anna proprio su una tematica alimentare.       

I nomi e le situazioni sono stati modificati nel rispetto della privacy .                                       

La paziente in esame e io stessa, ci auguriamo che tale lettura possa fungere da spunto di riflessione e aiuto a chi si è trovato o si trova ad affrontare un problema tanto complesso .


IL CASO DI ANNA

Anna ha 31 anni, sta effettuando un percorso psicologico con sedute settimanali per problemi di bulimia.

Quando inizia la psicoterapia vomita da due a tre volte la settimana, sempre di notte, dopo abbuffate incontrollabili in cui svuota letteralmente il frigorifero e il giorno dopo, vergognandosi, corre al supermercato per riempirlo di nuovo.                       


LA SUA STORIA                                                  

Quando A. compie un anno la madre viene colpita da una malattia degenerativa ossea che la porta a frequenti ricoveri fino alla sedia a rotelle e infine, quando A. ha otto anni, la madre muore e lei resta sola con il padre che mai si risposerà. “La mamma era ridotta a pelle ed ossa e poi si è spenta come un lumicino”, racconta A. senza apparenti emozioni. Da otto a dodici anni dice di aver vissuto un’infanzia felice, “sempre a pranzo fuori, ogni domenica con papà, poi al cinema in inverno e al mare in estate.” Della mamma non si parlava mai perché “papà diventava triste e sospirava”. A 15 anni, dopo il menarca, inizia a dimagrire e a rifiutare il cibo, fino ad arrivare all’età di 18 anni con un BMI di 15,5. Viene ricoverata in una clinica del nord Italia lper DCA . Torna a casa dopo tre mesi con BMI 19,5 e una alimentazione regolare. A 20 anni ha il primo rapporto sessuale con conseguenti sensi di colpa: “perché papà restava solo quando uscivo con Francesco, lui diceva di essere contento ma io lo vedevo triste e lo sentivo sospirare”. 

Da allora A. inizia a prendere e lasciare i ragazzi, fino a frequentare solo uomini sposati con cui ha rapporti sessuali eccessivi. Con loro si ubriaca, si picchia o meglio li picchia: “li volevo solo per me, ma quando erano lì li volevo distruggere”. Dopo questo lungo periodo di sesso “incontrollato” che dura per ben 8 anni, inizia a sentirsi sporca, a vedersi grassa con la pancia gonfia”. Non vuole restringere l’alimentazione: “non volevo ridurmi pelle e ossa e allora ho scoperto che potevo mangiare e poi vomitare”. L’escalation è immediata, da una volta alla settimana a due fino ad abbuffarsi e vomitare quasi tutti i giorni.


INIZIO DELLA PSICOTERAPIA

Quando si presenta in terapia sta frequentando un ragazzo non sposato con cui vorrebbe stabilire una relazione duratura: “non voglio perderlo, non voglio picchiarlo, questa volta vorrei permettergli di amarmi”. Con lei è evidente sin da subito l’inutilità di fornirgli informazioni alimentari. E’ informatissima su calorie, anoressia, bulimia, conosce i rischi fisici a cui sta andando incontro, ( conosce e non vuole più fare il diario alimentare e l’analisi dei pensieri disfunzionali) : “so cosa dovrei fare per smettere di vomitare ma non voglio o non posso altrimenti non sarei qui”.                                            

IL LAVORO CON ANNA

Si inizia a ripercorrere o meglio a vivere e riscrivere la sua storia da cui, a poco a poco, tra lacrime, comportamenti provocatori ma anche tanta fiducia reciproca, si arriva a lavorare non tanto sul dolore del lutto per la perdita della madre quanto sull’ ORRORE di A. nell’aver visto e nel ricordare (solo ora in seduta) il consumarsi della madre, la sua difficoltà a tenerla in braccio, a giocare con lei. Anna si rende conto di come abbia preso il posto della madre per non far “sospirare” il padre; quel padre che, per evitare a sé stesso e a lei, il dolore e la perdita, non parlava mai della mamma.                                                                        

E’ con la terapeuta che, dolorosamente e faticosamente, realizza di essere orfana e inizia a poco a poco a metabolizzare e a contenere quelle emozioni che fino ad allora venivano (e in parte vengono ancora) espulse con un vomito incontrollato. Si lavora anche sul senso di colpa per la bellezza e la salute del suo corpo che gli uomini vogliono ma solo per poche ore e lei pensa di non poterseli permettere per non dispiacere al padre e per non essere più bella della madre. Ancora, si parla della sua solitudine e del conflitto tra l’innamorarsi e lasciare il padre o restare bambina e riempire la vita del papà solo e triste.


ABBUFFATE E VOMITO

Quando A. si descrive durante le abbuffate lo fa parlando molto velocemente, sembra ingurgitare l’aria assieme alle parole che dice : “mi sveglio improvvisamente, è buio, non vedo nulla, mi alzo di colpo, non ho pensieri nella mia testa, corro ad aprire il frigorifero, la sua luce mi accende e lì non posso più nulla”. A. si abbuffa solo di notte e sempre dopo un risveglio improvviso. Spesso in seguito ad incubi o, come li chiama lei, “mostri con catene che si lamentano e mi svegliano”. A. continua la descrizione delle sue abbuffate in una sorta di trance “le mie mani aprono scatolette, strappano la carta del prosciutto, la plastica del formaggio e tutto mi entra dentro, non sento sapori, non sento nulla, ma non posso smettere. Tutto deve restare dentro di me fino a tapparmi la bocca; ma non riesco a tenere tutto dentro, ho paura di scoppiare e allora corro in bagno e vomito”.

 Ormai non ha più nemmeno bisogno di indursi il vomito meccanicamente, basta andare in bagno, sedersi sul bidet e il cibo esce fino a lasciarla senza forze, come lei dice “di me resta solo un lumicino e la luce del frigo vuoto con la porta aperta …”.


CONSIDERAZIONI 

Più che un vomito di cibo qui viene da pensare a “emozioni che spaventano ” che devono essere sollecitate e poi evacuate perché nessuno ha insegnato ad A. ad “alfabetizzarle”.

Il lavoro terapeutico con lei continua perché la sua storia ha ancora bisogno di essere rinarrata, rielaborata e arricchita, per dar parola a quei mostri con le catene, per liberarli dall’impotenza e giungere così ad una riparazione interna senza ricorrere alla dissociazione.

Molte isole del mondo interno di A. galleggiano ancora in solitaria. Molti ponti sono ancora da costruire per cercare di ridare unità a quel Sé dolorante che una morte così orrifica ha frantumato quando ancora non era ancora riuscito a formarsi completamente.

Anna e la terapeuta, “nella stanza d’analisi”, continuano a lavorare con l’obbiettivo di evitare soluzioni disumane (vomito, abbuffata) per riempire il vuoto lasciato da una perdita impensabile. 

Ad oggi, siamo consapevoli del lavoro che ancora ci aspetta, ma ora tutto è più lieve e, a tratti, anche divertente. La nostra relazione è solida, remiamo in due e ognuna di noi fa la sua parte per arrivare in quel porto sicuro da cui, troppo presto, Anna ha dovuto uscire per ritrovarsi , sola, in mare aperto.
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